corriere delle sera
È bianco. È italiano. È l’uomo più veloce del mondo. Il 12 settembre 1979 è un mercoledì. Mentre sei turisti muoiono sull’Etna travolti da un’eruzione improvvisa e un pirata dell’aria tiene in ostaggio all’aeroporto di Colonia 120 passeggeri di un Boeing 727 Lufthansa, a Città del Messico il vento partorisce il suo figlio di Barletta, Pietro Paolo Mennea, maglia 314 come il Pi greco, la costante matematica con cui decodifica il mezzo giro di pista, il rebus — né sprint purissimo né giro della morte — che insieme al professor Vittori studia a Formia, nella fabbrica dei campioni, facendosi lanciare in avanti da un gigantesco elastico teso all’altezza dei reni.
Universiade, finale dei 200, stadio olimpico, 2240 metri sopra il livello del mare, vento +1,8 m/s. Ha corso la semifinale lento (20”04), si lamenta: Nazareno Ronchetti gli ha accarezzato i muscoli di velluto senza lesinare olio canforato. Bang, si parte. Quarta corsia, il danese Jens Smedegaard come punto di riferimento. Reazione perfetta, curva composta, progressione sul rettilineo entusiasmante. Il più vicino dei cacciatori della lepre albina, il polacco Leszek Dunecki, è a cinque metri. «Sono sul traguardo, trattengo il respiro tra Giovanni Agusta, quello degli elicotteri, e Luca di Montezemolo. Oro. Guardiamo il tabellone: 19”72. Impallidiamo. E esplodiamo».
Gianfranco Lazzer, veneto di San Stino di Livenza, classe 1955, c’era. Velocista italiano, in quella Universiade conquisterà l’oro nella 4×100 con Mennea, Grazioli e Caravani; poco dopo, ai Giochi del Mediterraneo di Spalato, sarà argento nei 100 dietro Pietro. Colleganza virile, amicizia vera. «Nel momento più importante della nostra vita, quando eravamo i più forti d’Europa, io ero la persona più vicina a Mennea. Tipo schivo, allegro in compagnia, buono come il pane. Non è vera la leggenda del monaco sempre in astinenza: Pietro sapeva vivere». E anche morire: «Venti giorni prima di andarsene, il 21 marzo 2013, mi ha telefonato e non mi ha detto niente. Della malattia, delle cure, niente di niente». E lei non si è arrabbiato, Gianfranco? «No. Pietro era così. Come se dise? Riservato fino alla fine. La fiction Rai, i premi, gli onori. Di Mennea oggi sopravvive tutto ma è un peccato che i giovani non lo conoscano. E Filippo Tortu sbaglia: è Pietro non Berruti da valorizzare perché Livio è un mito ma è stato una parentesi e Mennea invece è durato cinque Olimpiadi, passando dall’oro di Mosca ‘80, ed è vivo anche nel 2019, a quarant’anni da quel leggendario record».