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CdS-Napoli, ripartire da Spalletti con fiducia

di Alessandro Barbano

Si può accogliere la qualificazione in Champions gettando le uova contro il pullman della squadra? A Napoli si può. E tuttavia la rabbia e il rimpianto sono i sentimenti più facili, ma anche i meno adatti, dopo una vittoria tennistica come quella contro il Sassuolo. È più utile chiedersi con onestà intellettuale perché la formazione con il tasso tecnico più elevato del campionato non sia più in lotta per lo scudetto, salvo un doppio suicidio sportivo di Milan e Inter. Le possibili risposte sono tre e chiamano in causa tutti i livelli del movimento sportivo azzurro: la società, la squadra, la piazza.
La prima risposta riguarda la mancanza di un terzino adeguato: tutte le sconfitte inattese e, in parte, inaccettabili del Napoli sono figlie di questa unica lacuna all’interno di una rosa molto assortita. La società ha rinunciato a cercare un rincalzo capace di ammortizzare le assenze e le cadute di condizione di Mario Rui, e questa rinuncia ha aperto un’emergenza dopo la partenza di Manolas. L’acquisto di Tuanzebe nel mercato di riparazione si è rivelato un flop.
La seconda risposta riguarda il carattere di un gruppo capace di sciupare nell’ultimo miglio il vantaggio accumulato con prestazioni a tratti spettacolari. È una fragilità psicologica che, come abbiamo avuto già modo di segnalare, accompagna l’intero decennio aperto dall’arrivo di Insigne a Napoli e in procinto di chiudersi con la sua partenza in Canada. C’è nella leadership degli azzurri migliori un’incompiutezza che si rivela nei momenti decisivi e che pesa come un’immaturità. Vale per Zielinski come per Fabian Ruiz, e per lo stesso Insigne. È un atteggiamento che ha negato al Napoli di raccogliere, in campionato e soprattutto in Europa, ciò che per le sue qualità tecniche avrebbe meritato. Ma c’è anche qualcosa nel rapporto tra società e squadra che da sempre non funziona come dovrebbe, e che produce uno scarico collettivo di responsabilità, con l’effetto di accentuare quella fragilità. Si tratta di una mancanza di filtro, che rinvia tutti i nodi gestionali al rapporto personale tra il presidente-padrone e i singoli. È un deficit di managerialità che affligge molti club in Italia e che finisce per sortire un effetto indiretto sul risultato sportivo.
La terza risposta riguarda la piazza. I tifosi napoletani, che contestano la squadra e la società, non hanno nulla da rimproverarsi? A giudicare dal numero di ticket venduti nelle partite di questo campionato, sembrerebbe che anche la città ci creda poco, molto meno di quanto fa Milano con le sue due squadre cittadine. Appena i divieti della pandemia sono cessati, San Siro è tornato traboccante di bandiere rossonere e nerazzurre. Il San Paolo è rimasto assai più freddino. È come se tutto l’intero universo della tifoseria azzurra vivesse ancora nel mito passatista di Maradona, un simbolo incancellabile e ormai legato all’identità sportiva e culturale della città. Ma che non dovrebbe diventare una zavorra sulle speranze di tornare egemoni.
Il parziale insuccesso della stagione azzurra è il frutto di una insufficiente fiducia che a tutti i livelli ha rappresentato un handicap. L’unico che ci ha creduto è parso Spalletti, un tecnico che con costante applicazione ha valorizzato le risorse inespresse e ha portato un aggiornamento tattico che rispecchia le attitudini offensive della squadra. Con lui bisogna riprovarci.

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